Storia, tradizione e curiosità sul pandolce genovese

Pubblicato il: 03/11/2017 00:00

In un ipotetico universo alternativo le guerre fra le repubbliche marinare si sono concluse con la vittoria di Genova. Dopo aver preso il controllo dei traffici marittimi nel Mediterraneo le sue forze si sono spinte nell’entroterra conquistando tutta la penisola e creando un grande stato nazionale in grado di confrontarsi con le altre potenze europee. Questo sviluppo alternativo della storia porterebbe a un’Italia molto diversa da quella che conosciamo oggi. Ma fra le tante differenze la più importante vedrebbe il pandolce, e non più il panettone, come il tradizionale dolce natalizio.

Ogni regione, forse ogni comune d’Italia, ha un dolce nato o adottato per celebrare il Natale. Ma sono state soprattutto questioni di marketing a fare in modo che fosse il panettone milanese a classificarsi per il primo posto sotto l’albero. Già negli anni cinquanta gli stabilimenti dolciari della Motta e dell’Alemagna erano capaci di sfornare 1300 quintali di panettoni al giorno che andavano a riempire gli scaffali dei negozi e dei primi supermercati. Scaffali che venivano svuotati dagli italiani convinti dalla pubblicità sui giornali, sui cartelloni stradali e su Carosello. E la crisi delle due grandi industrie dolciarie milanesi non significò la crisi del panettone che vide anzi nuove marche presentarsi sul mercato. Quanto alla bisciola valtellinese, al panone bolognese, al buccellato siciliano o, appunto, al pandolce genovese non restava che ritagliarsi delle nicchie. Nicchie solide ma comunque strette perché nessuno potrà mai dire che tutti questi dolci siano meno buoni del tipico prodotto milanese. Eppure si potrebbe dire che sia il panettone ad essere debitore. E proprio con il pandolce.

Già la forma a cupola, ancora più evidente nella versione alta del pandolce, dà l’idea di una parentela stretta. Convinzione che si rafforza guardando alla frutta candita ed all’uvetta sultanina che arricchiscono l’impasto di entrambi questi lievitati. Ma se esiste una parentela quale può essere il suo grado? Quella di cugini? Di fratelli? O addirittura quella di un padre con il figlio?

Secondo una leggenda il panettone sarebbe nato nella seconda metà del quindicesimo secolo, quando venne servito per la prima volta alla corte di Ludovico il Moro da un cuoco che aveva dovuto improvvisare un dolce con burro, farina, uova, canditi e uvette. Ma anche il pandolce avrebbe origini lontane, non solo nel tempo ma anche nello spazio, dato che secondo lo storico genovese Luigi Augusto Cervetto (1854-1923) deriverebbe da un dolce persiano a base di frutta secca, pinoli e canditi. Non è certo che Genova abbia davvero importato dall’Oriente questa ricetta, ma è fuori di dubbio che già nell’undicesimo secolo, in occasione della Prima Crociata, aveva stabilito le sue basi nel Mediterraneo orientale. Create per dare appoggio a una spedizione militare queste basi sarebbero quindi diventati porti commerciali che avrebbero fatto conoscere agli abitanti della Repubblica nuovi cibi, come l’uvetta sultanina, e nuovi modi per conservarli, come il processo di canditura. Quindi molto prima che il Duca di Milano assaggiasse la prima fetta di panettone nelle case dei genovesi l’impasto delle pagnotte veniva arricchito con uvetta, canditi e pinoli realizzando un pandöçe che col tempo avrebbe occupato un ruolo fondamentale nel rito natalizio ligure. Portata in tavola dal figlio più giovane e offerta al capofamiglia mentre la madre recitava la seguente preghiera benaugurale:


Vitta lunga con sto’ pan!

Prego a tutti tanta salute

comme ancheu, comme duman,

affettalu chi assettae

da mangialu in santa paxe

co-i figgeu grandi e piccin,

co-i parenti e co-i vexin

tutti i anni che vegnià

cumme spero Dio vurrià.


Questa pagnotta rappresentava quindi la speranza di una vita lunga e felice sotto la protezione di Dio. Una speranza che doveva essere condivisa anche con i poveri, ai quali era sempre destinata una fetta, mentre un’altra porzione veniva conservata fino al 3 febbraio per onorare San Biagio. Ogni membro della famiglia ne avrebbe ricevuto un boccone che, a distanza di più di un mese dalla preparazione, conservava ancora tutta la sua fragranza. Un pane sostanzioso, arricchito di frutta e capace di conservarsi a lungo non poteva sfuggire alle attenzioni di un popolo di mare. Al giorno d’oggi infatti uvetta e frutta candita occupano nella nostra dieta uno spazio modesto e limitato ai dolci. E anche quest’ambito tende a restringersi visto che ormai non esiste dolce della tradizione natalizia che non abbia una variante priva di questi ingredienti. Ma per gli equipaggi delle navi mercantili uvette e scorze di arancia trattate con lo sciroppo di zucchero potevano sostituire la frutta fresca, destinata a marcire nei lunghi periodi di navigazione. All’epoca era proprio la mancanza di frutta e verdura fresche nell’alimentazione dei marinai a provocare lo scorbuto, una malattia capace di provocare vere stragi sulle navi. Nel diciottesimo secolo sarebbe arrivata la dimostrazione scientifica che la vitamina C poteva prevenirla, ma già prima che venissero condotti degli studi l’esperienza aveva insegnato ai liguri che bastava una manciata quotidiana di quei modesti frutti per contenerne gli effetti.

Una grande storia per un grande dolce che, senza ricorrere a universi alternativi, merita il giusto riconoscimento fra i dolci natalizi.