Per noi pasticceri novembre segna l’inizio di una maratona di feste e celebrazioni destinata a concludersi solo sei mesi più tardi con la Pasqua. Arrivati al traguardo di maggio possiamo finalmente riprendere fiato e pensare a una vacanza con la famiglia. Ma, come nei gialli, il destino è in agguato...
“E’ arrivata una mail.” Mia sorella entra nel laboratorio della nostra pasticceria con un foglio in mano e un sorriso sospetto sulla faccia. “Puoi leggermela tu?” le chiedo mentre appendo il grembiule con la speranza che qualunque sia la faccenda si risolva in pochi minuti, permettendomi di tornare a casa e riposarmi. “Gentili signori, lo scorso inverno avete preparato una torta per una rappresentanza sportiva del nostro paese. Il giudizio più che positivo che i nostri rappresentanti hanno fornito del vostro prodotto ci ha convinto ad avviare la produzione di alcune vostre specialità presso la nostra azienda. Se siete interessati vi preghiamo di contattarci per definire i termini di una consulenza che si potrà svolgere nella nostra sede.” “Da dove scrivono? Dalla Germania?”
“Acqua.”
“Dall’Inghilterra.”
“Acqua.”
“Vuoi dirmi che scrivono dalla Russia?”
“No. Da Bangkok.”
E’ una fortuna che sia stanco morto perché non ho nemmeno la forza di precipitare a terra.
“Coraggio,” dice mia sorella per sollevarmi il morale, “pensa a come è diventato famoso Cristoforo Colombo dopo aver fornito quella consulenza al re di Spagna. E non devi nemmeno prendere una caravella!”
Dopo due giorni di scambi intensivi di messaggi posso davvero dire che la realtà riesca ancora a superare la fantasia: in un giorno di maggio un pasticciere genovese si ritroverà a Bangkok per insegnare ai thailandesi la preparazione di frollini, torte da forno e del dolce che più rappresenta l’Italia: il panettone.
Da buon genovese avrei preferito portare la ricetta del pandolce ma il titolare della pasticceria thailandese con cui parlo al telefono si mostra irremovibile.
“Abbiamo bisogno che ci insegni a fare il panettoneee.” Insiste allungando la “e” finale ogni volta che ne ripete il nome.
A me appare come una discriminazione ma mio padre sa come prenderla con filosofia.
“Noi Tagliafico siamo capaci di fare un panettone che rappresenta il meglio della pasticceria italiana.” Commenta. “Ma deve ancora nascere il milanese che sappia fare un pandolce degno di Genova.”
L’incoraggiamento c’è, assieme a un bel carico di responsabilità. In questo viaggio rappresenterò una famiglia di pasticceri con oltre un secolo di tradizione, una città e una regione di cui sono orgoglioso e un paese che amo. Non so quanti capirebbero il mio stato d’animo, ma penso che se tentassi di esprimere i miei timori per un fallimento tanti direbbero che esagero.
“Mica vai alle olimpiadi!”, commenterebbero, “starai chiuso in una stanzetta a impastare biscotti. Se va male finisce là.”
Ma queste parole mi ferirebbero perché il mio mondo e la mia vita sono proprie quelle stanzette. E amare il proprio lavoro purtroppo significa non riuscire mai a farsi una ragione dei propri errori, anche se possono apparire banali come sbagliare l’impasto per dei biscotti.
Il giorno della partenza arrivo in aeroporto con il dubbio se assomiglio più a un narcotrafficante o a un dirottatore. Nel bagaglio ho stipato pacchi di farina, lievito, zucchero e cacao con cui confrontare gli ingredienti che troverò sul posto. E oltre a questo mix di polveri sospette porto con me alcune dozzine di lunghissime e appuntite stecche in acciaio. Ripenso ai guai che alcuni amici hanno avuto alla frontiera perché trovati in possesso di un coltellino svizzero e mi chiedo a cosa sto andando incontro. Intanto già al check-in l’impiegata mi fa notare che ho superato i limiti di peso. Apro le valigie e nel mezzo del salone suddivido pacchi e buste cercando di decidere cosa posso lasciare in Italia. Naturalmente attiro la curiosità degli altri passeggeri e soprattutto di una coppia di Carabinieri che si avvicina, prende una delle stecche e ne saggia la punta.
“E queste a cosa servono?” Chiede il capopattuglia.
“Per fare i panettoni. Sono un pasticcere e sto andando a Bangkok per insegnarne la ricetta ai thailandesi.”
“Va bene,” è quello che risponde anche se sembra indeciso fra il ridere e l’arrestarmi, “ma sia chiaro che questi spadoni vanno tutti nella stiva”.
E non mi staccano gli occhi di dosso fino a quando le valigie non scorrono via sul nastro fino al deposito di imbarco.
Superata la dogana resta comunque la preoccupazione per lo stress a cui sto sottoponendo la parte più preziosa del mio carico: una piccola palla di lievito madre presa dall’impasto originale che la mia famiglia si tramanda dal 1911. Potrà aiutarmi a fare miracoli, se come credo ce ne sarà bisogno, ma a condizione che superi indenne un volo di quindici ore e gli sbalzi climatici fra l’Europa e l’Asia.
A Bangkok trovo un piccolo comitato di benvenuto che mi accoglie calorosamente. Mi chiedono se ho fatto un buon viaggio e se mi sento stanco, ma presto queste domande lasciano il posto a una serie di commenti entusiastici sulla pasticceria italiana. Ogni paese ha tradizioni alimentari che dobbiamo ammirare e da cui dobbiamo imparare senza pregiudizi. Ma già dalle parole che scambio con i miei accompagnatori nel tragitto fino all’albergo capisco che la creatività italiana è un punto di riferimento unico per tutti gli altri popoli. Mi chiedo dove potremmo arrivare se riuscissimo a sfruttare fino in fondo quel patrimonio di idee che abbiamo ereditato dal nostro passato e che le nuove generazioni continuano ad arricchire.
Parliamo in inglese ma c’è una parola italiana che viene continuamente ripetuta: panettoneee.
“Capisco le aspettative che avete per il panettone,” spiego enfatizzando l’ultima vocale per correggerli, “ma...”
“Cosa la preoccupa signor Tagliafico?”
“L’aria, l’umidità, il caldo. Nel nostro laboratorio basta una piccola variazione di temperatura o di umidità per compromettere un impasto e qui credo che tutte le condizioni siano estreme. Prima di andare in albergo portatemi al vostro laboratorio. Devo controllare lo stato del...” La stanchezza del viaggio e il cambiamento di fuso orario si fanno sentire e fatico a trovare il termine inglese per lievito madre.
“Ha con sé il sourdough?” Chiede il titolare dell’azienda intuendo cosa cerco di dire.
“Sì. Devo controllarne le condizioni.”
Il titolare dà un ordine all’autista che cambia subito strada, spingendo sull’acceleratore mentre prima procedeva con calma. L’atmosfera che si è creata in macchina adesso è quella di chi sta accompagnando un malato bisognoso di cure urgenti. Quando arriviamo alla pasticceria saltiamo dalla macchina e corriamo dentro al laboratorio come se fossimo in un film poliziesco.
Quella che trovo è una cucina moderna e ben attrezzata dove una squadra di uomini e donne si muove efficientemente. Nessuno ansima, si lamenta o perde anche solo un attimo di tempo per passarsi una mano sulla fronte.
Apro la borsa termica e tolgo la busta con il lievito madre dal ghiaccio che l’ha protetto fino a questo momento. Con il tacito assenso del titolare tutti interrompono le proprie faccende e formano attorno a me un anello.
Schiaccio la pasta per controllarne l’elasticità. Poi ne stacco un frammento e lo assaggio per provarne il gusto. Intanto studiò le espressioni di chi mi circonda. Non vedo gli sguardi perplessi e incuriositi di chi segue un rituale esotico ma le espressioni attente di colleghi che sanno esattamente quello che sto facendo.
“E’ vivo.” La diagnosi viene accolta con un applauso che mi riempie di gioia. “Dobbiamo solo rinfrescarlo.”
Ci rimbocchiamo le maniche e con acqua e farina iniziamo il primo dei molti rinfreschi a cui dovremo sottoporre il lievito madre. Questo significa dare nutrimento agli invisibili microrganismi che popolano questa palla di pasta. Tanti lo ignorano ma è proprio grazie a loro che possiamo mangiare pane e dolci soffici.
Non ho idea se mi risveglio il giorno dopo, un’ora dopo o una settimana dopo. Ma qualunque sia questo momento lo inizio con tutta l’energia che mi serve. Già la colazione che mi offre il mio ospite è un’occasione per esplorare i gusti della pasticceria thailandese.
“I turisti apprezzano la nostra cucina anche se il loro interesse si concentra sulle specialità salate che consumeranno a pranzo e a cena. Fanno fatica ad apprezzare quello possiamo offrire già per il primo pasto della giornata.”
Sul tavolo, ai lati della tazzina e della caffettiera, sono appoggiati due vassoi. Uno è occupato da brioche spolverate di zucchero a velo, identiche a quelle che potrei trovare in un qualsiasi caffè italiano. Sull’altro c’è una piccola piramide di sfere giallognole dall’aspetto croccante. Quello che ho davanti è un test che supero senza incertezze assaggiando una di queste sfere grandi come una pallina da golf.
“Cocco e crema pasticcera,” valuto dopo aver assaporato il ripieno, “più una nota leggermente piccante che non riesco a identificare ma che si sposa bene con il dolce.”
“Erba cipollina,” spiega, “si chiamano Kanom Krok e vengono cucinati nel latte di cocco. E’ uno street food molto apprezzato, ma per la colazione del mattino viene quasi ignorato.”
“Un peccato. Credo che le culture debbano sempre venirsi incontro, anche nel settore della pasticceria.”
“E questo incontro dovrebbe aver luogo a metà strada. Ma a volte una delle culture deve fare qualche passo avanti più dell’altra. E questo ci porta al motivo per cui l’ho invitata. Il turismo dal suo paese cresce ogni anno e a dicembre si forma una piccola comunità che si aspetta di trovare da noi quelle tradizioni che ha lasciato in patria. Molti alberghi propongono la cucina italiana ma c’è un grosso vuoto che dobbiamo colmare, quello del panettoneee.”
“Infatti, il panettone.” Confermo calcando ancora una volta la e finale.
Il rinfresco è riuscito pienamente e adesso il lievito madre si presenta in ottima forma su uno dei tavoli del laboratorio. E’ il momento di valutare gli ingredienti che ciascuno di noi può offrire per le preparazioni che ci attendono. Mentre la mia squadra di collaboratori studia il contenuto delle confezioni che ho portato dall’Italia io esamino le etichette delle farine, assaggio il latte, lo zucchero e i canditi, rompo un uovo per capirne la densità. Ma è sull’acqua che concentro la mia attenzione, in particolare sulla sua acidità.
Sarà una deformazione professsionale, ma vorrei che nelle scuole insegnassero ai nostri ragazzi a leggere non solo Manzoni, Dante e Virgilio ma anche le etichette di quello che mangiano e bevono. Oltre ai tanti vantaggi che deriverebbero per la loro salute scoprirebbero anche qualche trucco utile in cucina, come quello di favorire la lievitazione usando un’acqua leggermente acida. Basta cercare sull’etichetta che il valore indicato dal simbolo PH sia inferiore a 7. Ma per il nostro impasto il livello ottimale di acidità non potrà superare il 4,1. L’acqua che useremo dovrà avere un bassissimo tasso alcalino.
Un’altra condizione da rispettare sarà la temperatura dell’impasto che non dovrà superare i 26 gradi, esattamente quelli del laboratorio in cui ci troviamo. Qui le condizioni ambientali sono più torride di quelle a cui sono abituato ma in questo caso mi saranno di aiuto. Prepariamo così il primo impasto serale con acqua, zucchero, tuorli, farina e il lievito madre. Sarebbe straordinario se già questo desse il risultato che cerchiamo, ma nessuno di noi si aspetta di riuscire già al primo tentativo.
La sera vado a cena in uno dei ristoranti tipici di Bangkok. Amo la cucina thai, in particolare quella Isan del nord-est del paese, e qui posso gustare due dei miei piatti preferiti: la Som Tam, un’insalata di papaya verde, e il Laab Namtok, un piatto a base di carne, riso e spezie. Mentre mangio mi accorgo di quanto siano fondate le ragioni che spingono il mio ospite ad imparare le specialità dolciarie occidentali. Gli stranieri sono felici di ordinare zuppe piccanti, noodles, vassoi di pesce e di carne di maiale. Ma arrivati al dessert guardano con scetticismo i dolci locali e preferiscono concludere con un gelato o un cheesecake americano. Eppure il Khao Niaow Ma Muang che mi consigliano è un budino di riso e mango delizioso quanto semplice. Quando più tardi torno al mio albergo posso riflettere su questa occasione unica che sto vivendo: sto insegnando molto ai miei nuovi amici e sto imparando moltissimo da loro e dalla Thailandia.
Il mattino dopo osserviamo delusi l’impasto. Il suo volume dovrebbe essere triplicato invece si è appena gonfiato e appare appiccicoso. Prima di procedere con un nuovo tentativo rinfreschiamo il lievito cambiando la qualità di acqua e di farina.
La realizzazione del nuovo impasto si presenta come un esperimento scientifico: pesiamo gli ingredienti facendo attenzione a non sbagliare le dosi di un milligrammo, misuriamo le temperature con un termomertro digitale per avere la massima precisione, eseguiamo ogni passaggio come se stessimo maneggiando una delicata miscela esplosiva. La massa che otteniamo sembra avere la consistenza giusta, ma anche se il mondo della pasticceria si basa su principi chimici e fisici il più delle volte bisogna semplicemente andare per tentativi. Solo domattina scopriremo se i microrganismi del lievito avranno fatto il loro dovere.
Chiedo di passare la notte in laboratorio per seguire il processo ma il titolare scuote la testa.
“Conosce il detto più guardi la pentola e meno l’acqua bolle? Vada a riposare e lasci che i nostri piccoli amici facciano il loro dovere in pace.”
Sfrutto il tempo dell’attesa mostrando ai miei colleghi la preparazione di alcuni tipi di frollini e di torte. Suscito un grande interesse con i ciocconoce, ma il caldo ci costringe a rielaborare la ricetta rinunciando alla glassa di cioccolato. Sulla preparazione della pasta frolla non c’è invece nulla che possa insegnare, se non come arricchirla con fantasia. La torta perapistacchio che prepariamo sarà una sorpresa che sia i turisti che la clientela locale sicuramente apprezzeranno. Non so invece quanto i turisti e la clientela abituale della mia pasticceria potrebbero apprezzare i Kanom Krok che preparano sotto i miei occhi. Come convincere chi è abituato a brioche e cappuccino ad assaggiare questi dolci stuzzicanti? Il punto di incontro fra le diverse culture più che su una strada sembra piazzato sulla vetta di una montagna.
“Cosa ne pensa Signor Tagliafico?” E’ il messaggio che compare sotto la foto che ricevo il mattino dopo sul cellulare.
“Che ci siamo!”
I microrganismi, i nostri piccoli amici, hanno lavorato bene e come speravamo l’impasto ha triplicato il suo volume. Questo ci permette di passare alla fase successiva: l’impasto del mattino. Aggiungiamo altra farina, zucchero, tuorli e la frutta che insaporirà il nostro dolce. I canditi e le uvette che usiamo hanno un gusto diverso da quelli italiani. Non migliore o peggiore, semplicemente più esotico e questo può dare un tocco di originalità che i turisti apprezzeranno. La qualità della vaniglia è invece straordinaria e non è un caso: la Thailandia è uno dei maggiori produttori mondiali di questo fiore. Quando finiamo di impastare lasciamo che la massa riposi per un’ora.
“E’ una pausa di relax indispensabile per facilitare le prossime sollecitazioni a cui sottoporremo l’impasto.” Spiego, aggiungendo che in gergo questa fase si chiama puntatura.
Anche se a modo loro, allungando sempre quell’ultima vocale, i miei collaboratori si impadroniscono di questa terminologia. E’ qualcosa che mi fa sentire orgoglioso perché quando partirò lascerò anche questa parte del made in Italy in Thailandia.
Mettiamo l’impasto negli stampi anche se devo frenare i ragazzi che vorrebbero già mettere tutto in forno. Pochi dolci richiedono tanto tempo e pazienza come il panettone e prima che si possa passare alla cottura vera e propria dovremo aspettare altre quattro ore. In questo tempo l’impasto lieviterà ancora fino a sporgere dallo stampo, assumendo la sua forma tipica che diventerà poi definitiva durante la cottura.
Riprendo le lezioni sulle torte e sui frollini e quando arriva il momento inforniamo. Anche se il titolare ripete il suo detto non riesco a trattenermi dal controllare i progressi di quelli che potrebbero diventare i primi panettoni made in Thailandia. Nel momento in cui apriamo il forno il profumo sembra travolgere i miei collaboratori. Vorrebbero divorarli subito ma resta ancora un ultimo passaggio da affrontare. I panettoni sono cotti ma la loro forma non si è ancora stabilizzata. E’ a questo punto, per garantire che presentino la tipica forma a cupola, che entro in azione con i miei spadoni. Li infilzo, li capovolgo e li allineo su due supporti dove riposeranno fino alla sera.
E ci siamo. Vorrei che il privilegio della prima fetta spettasse al titolare ma l’assaggio più che un onore è un compito che può spettare solo a me. Solo io potrò giudicare se tutti i nostri sforzi hanno portato a un vero panettone. La pasta è morbidissima, il profumo inebriante, il sapore non solo mi delizia ma mi riporta in Italia. Basta la mia espressione per convincere tutti del nostro successo.
“Abbiamo il panettoneee!” Gridano applaudendomi.
“Ed è un grandissimo panettone.” Aggiungo correggendoli per l’ultima volta. Così almeno spero.
Gli addii non piacciono a nessuno. Infatti quelli che ci scambiamo all’aeroporto sono degli arrivederci.
“Ogni giorno centinaia di italiani visitano il nostro paese e vorremmo accoglierli con tutti i dolci della vostra tradizione,” spiega il titolare elencandomi tutte le ricette che dovrò insegnargli: la colomba, il pandoro, la veneziana...
“E soprattutto il pandolce.” Aggiungo da buon genovese.
“Sì signor Tagliafico, deve tornare per insegnarci a fare il pandolceee.”
Mi chiedo se tutte quelle “e” finiranno anche sulle confezioni.